Guardami negli occhi ed io saprò di esistere … ancora…
Per molto tempo, quando ho iniziato a occuparmi di demenza, ho pensato che fosse una malattia senza alcuna possibilità. Un viaggio che si snoda lungo i sentieri di un tunnel buio e irreversibile, salite faticose di una lenta e quotidiana perdita di abilità, tra allucinazioni, deliri e disturbi, viottoli dell’ espropriazione incessante della qualità più importante per un essere umano: la sua mente.
“Non dimenticare chi dimentica” è stato lo slogan che voleva ricordare a tutti noi l’importanza di prenderci cura delle persone affette da ogni tipo di demenza e dei loro familiari.
Quelle credenze e quel modo di descrivere la realtà era però ancora molto lontano da ciò che in questi anni ho scoperto tra le pieghe delle relazioni con le persone malate, tra le magiche intuizioni degli operatori preparati e capaci, tra le parole di familiari ricchi di amore e possibilità, tra le certezze di nuovi studi scientifici delle neuroscienze e della psicologia positiva
Nel bilancio di missione del 2010 della Federazione Alzheimer Italia trovo scritto: “Se perdi la memoria, perdi tutto”… È attraverso affermazioni come queste che non comprenderemo mai la Forza della Vita ancora presente nella malattia. Quando incontro le persone che con-vivono con la demenza ed i loro familiari comprendo che la vita è presente. Parliamo di presenza, risata, respiro, nocciolo vitale… Ed i volti tornano a sorridere alla vita possibile, che talvolta dura solo qualche istante, ma che sa ergersi oltre le nuvole. Oltre la demenza c’è sempre la sente-menza, un paesaggio di possibilità e vita.
Proprio giorni fa ho letto uno scritto nel quale si sottolineava “I caregiver non possono fermare, curare o modificare la demenza”. Ma è davvero questo il messaggio che vogliamo dare a queste famiglie? Non possiamo guarire ma abbiamo il dovere di dare alle persone malate ed alle loro famiglie strumenti per aiutare a vivere in maniera più serena e consapevole il tempo di malattia. La vita non finisce dopo la diagnosi.
La Demenza potrà portare via la ragione ma non porterà mai via i legami, le emozioni e i sentimenti. La mente si ammala di alzheimer, il cuore no.
E’ arrivato il tempo di scrivere nuove pagine intorno alla demenza, pagine che cambino in modo sostanziale la narrativa. La drammaturgia e l’allarmismo non possono essere la strada.
Per comprendere la demenza dobbiamo uscire dagli schemi comuni. Abbiamo bisogno di una ventata di aria fresca che crei nuove parole, paradigmi, possibilità, intuizioni.
Ed io su quali spalle potevo salire durante la mia attività professionale se non su quelle delle persone che vivono in ogni loro cellula questa malattia? Ho compreso che in ogni persona c’è un potenziale di vita, c’è una presenza vitale che merita di essere incontrata. Le persone malate possono diventare maestri di buone pratiche, protagonisti delle loro vite perché la vita non finisce con la diagnosi di demenza. Se la osservi da fuori, la demenza e’ tempo di disgregazione. La mente si frantuma, i ricordi si sgretolano. La realtà si confonde con il passato, talvolta sembra diventare fantasia e si trasforma in allucinazione. Quando ami e la mente si sofferma su tutto questo il dolore ti attanaglia l’anima e la invita a frantumarsi. Pensieri d’ impotenza, dolore, paura, angoscia si rincorrono.
Ho scoperto in questi anni però che c’è un’altra strada: dare valore ai momenti di gioia e serenità, sottolineare la vita che ancora c’è, godere di quegli istanti che aprono il cuore e lo nutrono di presenza amorevole. Ogni cosa che facciamo nei confronti di una persona con demenza non è inutile ma vitale, pulsante, squarcio di possibilità e di morbidezza. Di fronte alla demenza la logica si ferma e si arrende. L’intelligenza creativa crea e inventa, gioca e vince…
Anni fa, leggendo ciò che Ronald Reagan, Charles Heston, Aino Suhola, Carry Smith ho iniziato a comprendere che la consapevolezza di malattia esiste ed ha un suo profondo significato interiore. «Non lasciatemi sola qui, in una cosa che non so che cosa sia. E questa esistenza unica sta scivolando via dalle mie mani come sabbia fine, rapidamente, come seta, elusivamente. Perché non venite più a trovarmi come facevate una volta? Perché dovreste aver paura della vostra incapacità di aiutarmi? Dimenticatevi della perfezione: ho bisogno della gente, un paio d’occhi, un tocco, qualcuno qui in maniera personale. Perché questa è la nostra vita E queste sono le mie emozioni». (Ultimo discorso ai colleghi parlamentari finlandesi di Aino Suhola)
Ascoltare la voce degli ammalati di demenza mi sembra oggi l’unica strada percorribile per costruire modelli di cura efficaci e per alleggerire quel carico di fatica emotiva che malato, famiglie e operatori sentono rimbalzare nel cuore e nella mente. Quando la dott.ssa Jill Bolte Taylor, neuroscienziata, vive la sua esperienza con un ictus scrive “ Non sono stupida, sono solo ferita. Rispettatemi” Si! Come tanti anni fa Francesca, persona malata di 48 anni mi disse: “Sono demente, ma non sono deficiente”…
Le riflessioni tuttavia che Peter Whitehouse, neurologo americano e uno dei massimi esperti mondiali di alzheimer pone nel suo libro “Il mito dell’alzheimer” aprono ad ulteriori approfondimenti. Il suo libro vuole prendere posizione “contro la tradizionale visione della malattia di alzheimer che ci è stata inculcata, cioè che le persone affette da alzheimer sperimentano una costante e devastante perdità di sé in seguito a un processo patologico e che tutti gli altri possono solo vivere nell’attesa angosciante del proprio invecchiamento e sperare nell’avvento di una cura biologica. Le patologie neurodegenerative non si “impadroniscono” delle persone anziane né possono dominarle o annullarne l’umanità; semplicemente cambiano il modo in cui vivono la loro vita. Non esiste la completa “perdita di se”. La malattia non prevale mai sulla persona”
“La mia più grande paura, vivendo con la demenza, è che le persone che si prendono cura di me finiscano col farmi diventare un disabile a tutti gli effetti facendo tutto al posto mio. Ci sarà un momento in cui avrò bisogno di maggior assistenza ma fino a che non arriverà quel giorno, lasciatemi fare tutto quello che riesco. Se io sto lottando con i miei pensieri per riuscire a formularli, non finite le frasi per me perché voi non potete pensare quello che io sto pensando. La stessa cosa vale quando qualcuno vuole rispondere al posto mio. Se mi pongono una domanda vorrei essere io a rispondere. Se tu parli per me, nessuno si preoccuperà di parlare con me, e così, invece che fare a me le domande, le faranno ad altri. Questo succede molto spesso quando qualcuno si rende conto che io sono malato di demenza. Questo mi fa pensare che loro siano convinti che io sia diventato stupido tutto ad un tratto.La prossima volta guardami negli occhi quando stai parlando con me. Fammi sentire che tu desideri parlare con me. Posso leggere nei tuoi occhi se tu ti senti veramente a tuo agio a parlare con me oppure se hai paura di starmi vicino. Io sento le tue emozioni e le rispecchierò. Se tu sei arrabbiato o frustrato tu trasmetterai queste emozioni a me.Le mie paure hanno davvero poco a che fare con la mia demenza mentre riguardano principalmente il mio timore di perdere la mia qualità di vita. Io temo che tu proverai pietà per me e mi trasformerai in una persona disabile. Io so che le uniche informazioni che leggete riguardano le ultime fasi della malattia, ma io non sono ancora lì. Lasciatemi vivere con il mio Alzheimer fino al giorno in cui non potrò più fare le cose di tutti i giorni con dignità. Proteggetemi permettendomi di lottare” scrive Harry Urban
Non imparerai mai tanto come quando prendi il mondo nelle tue mani. Prendilo con rispetto, perché è un vecchio pezzo di argilla, con milioni di impronte digitali su di esso.(John Updike)
Il con-tatto visivo. Gli occhi, specchio dell’anima. La relazione con la persona che con-vive con la demenza allora inizia da qui. Prima ancora della necessità di fare qualcosa, prima delle parole, prima dei gesti: lo sguardo.
Occhi che per qualche secondo si incontrano e si sorridono, si ri-conoscono. Occhi che metacomunicano: “Sono qui per te”. Lo sguardo come porta di accesso alla meraviglia che sei: “toc, toc. Posso entrare?”
Io esisto solo se tu mi guardi è la lancinante verità della relazione umana
E cosi inizia a creare un supplemento di sguardi verso la persone che con-vive con la demenza e se puoi, al mattino, donati anche un tu uno sguardo: concediti di esistere ai tuoi occhi! John Zeisel scrive: “La strada per alleviare il peso dell’ alzheimer passa anche per il cambiamento del punto di vista” e poiché “Il progresso è impossibile senza il cambiamento e coloro che non sanno cambiare idea non possono cambiare nulla” (George Bernard Shaw) è necessario porre al centro del dibattito non la persona con i suoi bisogni, bensi la persona nella sua interezza. La persona con i suoi de-sideri, semi piantati nel profondo di ciascuno nel terreno della propria potenzialità. Quei semi possono essere aiutati a crescere e a germogliare solo da persone capaci di rispettare e onorare i propri desideri interiori, da persone che sanno scommettere nell’altro e nelle sue capacità”
De-sideri! Si … i desideri vivono dentro di noi. “Vinci le tue paure. Dentro ciascuna di loro si una nasconde un tuo desiderio” scriveva Gurdjeff. Imparare a farci le domande giuste, quelle più coraggiose aprirà alla nostra mente nuove possibilità di comprensione e amplierà il nostro “sentire”. De-siderare è davvero una parola densa di coraggio, oserei dire una delle tante parole terapeutiche che devono colorare il nostro nuovo linguaggio. Dobbiamo uscire dalla dimensione del con-siderare, ovvero di valutare ciò che in un dato momento gli astri ci consento di fare, per avventurarci invece nel de-siderare, ovvero smettere di dipendere dalle forze astrali e guardare altrove, “oltre”, “aldilà”. Si proprio in quell’aldilà che ci fa paura perché odora di perdita e morte. Aldilà delle certezze esiste il campo delle possibilità
Tratto da #lavitanonfinisceconladiagnosi di Letizia Espanoli