CONSUMO DI BENZODIAZEPINE E SVILUPPO DI MALATTIA DI ALZHEIMER: UNO STUDIO NEUROSCIENTIFICO COME SPUNTO DI RIFLESSIONE
Da diversi anni ho la fortuna di ascoltare le storie di famiglie di persone che convivono con la Demenza e spesso mi è accaduto di riscontrare tra loro un comune denominatore: l’utilizzo di psicofarmaci per tempi prolungati da parte di chi poi nel tempo ha sviluppato la malattia.
Questa osservazione mi ha spinto a fare domande a proposito e ad indagare ogni volta che mi era possibile finché i miei timori non sono stati avvalorati da uno studio di cui vi parlerò tra poco.
Procediamo con ordine: Cosa sono le benzodiazepine?
Le benzodiazepine sono una classe di farmaci “psicotropi”, ossia che vanno ad agire sul sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale), modificando alcuni processi chimici che fanno parte del naturale funzionamento del cervello. La loro azione può portare nella persona che li assume, cambiamenti nello stato di coscienza, nell’umore, nel modo in cui percepisce oggetti esterni e situazioni interne ed infine del comportamento.
Questi farmaci sono comunemente utilizzati per il trattamento di disturbi dell’umore (come ansia e depressione), disturbi del sonno, stati di agitazione, stress etc.
E’ noto da molti anni che l’uso di benzodiazepine in maniera continuativa e non supervisionata può portare ad assuefazione (necessità di dosi maggiori per ottenere lo stesso effetto), dipendenza (difficoltà o impossibilità di interromperne l’assunzione) e che la sospensione può causare sintomi di astinenza.
Ma oggi la ricerca si è spinta oltre!
Lo studio di Sophie Billioti Gage e colleghi franco-canadesi dell’istituto INSERM, ha dimostrato come l’assunzione di benzodiazepine aumenti in maniera significativa il rischio di sviluppare la Malattia di Alzheimer.
Lo studio svolto in Quebec, ha preso in considerazione quasi 9.000 persone di età superiore a 66 anni, e le ha seguite nel tempo per 6-10 anni, dimostrando come:
-l’assunzione giornaliera di psicofarmaci per 3- 6 mesi aumenti del 30% il rischio di sviluppare Malattia di Alzheimer;
-l’assunzione una volta al giorno per più di sei mesi aumenti il rischio del 60-80%.
Alla luce di questi e altri risultati che stanno emergendo sul piano scientifico credo sia importante aiutare le persone a comprendere meglio per compiere scelte consapevoli e potersi tutelare se necessario.
L’utilizzo di questi farmaci è indicato solo nel caso in cui insorgano difficoltà talmente gravi da impedire alla persona di fare capo alle sue naturali capacità di resilienza, alla sue risorse personali e alla sua rete sociale di supporto. Talmente gravi da mettere a repentaglio la sua vita o di chi gli sta accanto. Quando tali difficoltà interferiscono in maniera talmente prepotente da impedire alla persona lo svolgimento di normali attività di vita quotidiana (ad esempio alzarsi dal letto e andare a lavorare).
Solo ed esclusivamente in questi casi, sotto stretta supervisione di uno specialista e per il più breve tempo possibile. Appena la persona ritorna ad essere in grado di far leva sulle sue risorse e capacità oppure può essere aiutata a farlo, questi farmaci devono essere progressivamente eliminati.
In ogni caso la questione DEVE essere accompagnata da un approccio psicologico, perchè il solo approccio farmacologico, sembra “cancellare” i sintomi ma in realtà spesso non risolve il problema all’origine. Tale “non soluzione del problema” porta spesso i sintomi a ripresentarsi dopo l’interruzione del trattamento. Questo porta di conseguenza al riassunzione e al prolungamento della cura oltre le raccomandazioni delle autorità sanitarie (non più di 12 settimane) e spesso accade anche che l’assunzione non supervisionata porti molte persone a continuare ad assumere per anni se non per un lungo ciclo di vita!
Oggi, in attesa di altri studi che possano conferma ulteriormente quello citato, credo sia doveroso portare l’attenzione delle persone in questa direzione. Renderle consapevoli dei rischi che possono essere connessi a tali trattamenti prolungati e della possibilità invece di fare leva sulle proprie risorse personali o ricorrere a metodologie di cura prive di effetti collaterali.
In Italia, sappiamo che dal 2005 il consumo è in aumento. Risulta infine che si consumano più benzodiazepine al nord (Liguria, Veneto, Valle d’Aosta e Piemonte) e meno al sud (Basilicata, Molise, Puglia), e che l’utilizzo aumenta al crescere dell’età. Dati non italiani indicano che un ultra-sessantacinquenne ogni 10 usa abitualmente benzodiazepine.
Il “Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani” raccomanda di informarsi attentamente, di non accettare facili diagnosi psichiatriche o la prescrizione fatta spesso a cuor leggero, sia per se stessi che per i propri figli, ma di richiedere accurate analisi mediche.
Giusi Perna Psicologa Felicitatrice
Qui lo studio pubblicato dal British MedicalJournal: http://www.bmj.com/content/349/bmj.g5205
Qui lo studio pubblicato dall’Istitut National del la Santé et de la Recherche Medical: http://presse.inserm.fr/en/benzodiazepines-and-alzheimers-disease-the-risk-increases-with-duration-of-exposure/15346/
Fonte: http://www.informazionelibera.net/alzheimer-confermato-legame-benzodiazepine-la-malattia/