Le domande dell’organizzazione che accoglie persone con demenza: Vittima o Faro?
“Non sai Letizia quanto Maria sia difficile. E’ una donna impossibile. Esaspera tutti” racconta la responsabile di nucleo per mitigare quanto è appena accaduto: un’oss è uscita dalla camera della residente affermando “che rottura di coglioni questa qua”. E che dire poi di Antonio che, quando trova qualcuno seduto sulla “sua” sedia attiva comportamenti di lotta. Lui è “impossibile da gestire: bisogna mandarlo via”
Quando l’organizzazione non ha in sè le competenze, il linguaggio e la cultura della Cura e del lavoro in equipe trasforma con facilità i residenti in buoni e cattivi. Sarà poi proprio verso i “cattivi” che svilupperà la sua re-attività, aumentando gesti che non curano, parole che feriscono e farmaci che tranquillizzano. Come uscirne?
Tutti a caccia di risposte. Ma sono proprio le domande che diventano strategiche per leggere i comportamenti speciali che possono essere manifestazioni di bisogni, desideri, disagio della persona accolta in struttura.
Il valore del professionista della Cura e della Relazione non è, quindi, solo quello di CONOSCERE ma anche quello di ESSERE.
Di fronte al comportamento speciale posso allora ispirare, come leader, due tipi di domande:
a. Domande “Vittima”: perché proprio a me? Perché accolgono in questa casa gente così? Perché mi sono ridotto a fare questo lavoro? Perché non gli danno delle gocce prima del bagno? Perché non gli mettono il pigiamone anche di giorno così facciamo meno fatica? Perché dovrei alzarlo solo per poche ore?
b. Domande “Faro”: cosa mi sta comunicando con questo comportamento? Quale bisogno insoddisfatto potrei vedere? Qual è la sua emozione ora? E la mia?
C’è una semplicità per arrivare al nocciolo del problema che nasconde il significato del comportamento. “La semplicità consiste nel sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo.” Scrive John Maeda, graphic designer e formatore. È proprio nel suo libro “Le leggi della semplicità” che l’autore suggerisce l’idea di organizzazione (ovvero come far si che un sistema composto da molti elementi appaia costituito da pochi e governabili).
I problemi complessi che i comportamenti speciali aprono ai nostri occhi sono disordinati, instabili, imprevedibili, confusi e non arrivano con le risposte giuste ma solo con i migliori tentativi. Questi problemi richiedono nuove soluzioni, create appositamente per le circostanze e per quella persona (spesso a parità di problema le soluzioni sono diverse).
Fran Peavey, pioniera nell’uso di domande strategiche, osserva: «Le domande possono essere come una leva da usare per aprire il coperchio bloccato di un barattolo di pittura. La domanda ci può far aprire idee più ampie e davvero commoventi sulla questione che portiamo nel cuore. La domanda strategica scava abbastanza in profondità per riuscire a dar vita alle soluzioni creative (unica strada per uscire da problemi complessi)».
Ricordo la storia di Giuseppe. Nella vita aveva guidato dal Nord al Sud grandi camion. La figlia ci aveva raccontato che Giuseppe dormiva spesso sul volante quando si sentiva stanco, non aveva un camion con la cuccetta e voleva sempre portare tutti i soldi a casa. La prima sera in struttura Giuseppe, con un gesto solo, buttò a terra il piatto della cena, sistemò le braccia, coricò il capo e si addormentò. L’OSS in servizio con grande maestria, conoscendo prima dell’accoglienza la sua biografia, pensò “se ora lo sveglio si arrabbierà”. Giuseppe è rimasto li per alcune ore. Verso mezzanotte, al suo risveglio, l’OSS della notte lo rassicurò dicendo che finalmente aveva consegnato il carico, per oggi non c’era più lavoro e poteva finalmente andare a riposare a letto. Giuseppe dormì fino a tarda mattina. Alla sera tutti erano diventati bravi a togliere il piatto prima che finisse per terra, talvolta Giuseppe si addormentava al tavolo, altre volte si alzava da solo e andava in camera. Ho spesso pensato come sarebbe stata la storia di Giuseppe se fosse arrivato in un nucleo che non aveva al suo interno l’abitudine di raccogliere la biografia, ma soprattutto di usarla per la costruzione del PAI e degli interventi individualizzati.
Ricorda che solo noi possiamo cambiare il nostro comportamento o l’ambiente fisico.
Talvolta, sono proprio le nostre azioni che “aprono” a nuovi comportamenti. Cosa accade se anziché poter dormire sul materasso per terra, mi metti nel letto con le sponde? È possibile che io aumenti la mia vocalizzazione? Che cerchi di scavalcarle? Che ti graffi appena ti avvicinerai?
Porsi domande “faro” vuol dire creare all’interno della propria organizzazione una lista di domande che possono:
a. scoprire il “punto di vista” della persona che vive con demenza
b. creare ipotesi per quel comportamento (e se facessi così perché…) rispetto a ambiente, dolore e corpo, resistenza all’assistenza
c. scegliere l’ipotesi più verosimile, sperimentarla per almeno 3 giorni
d. osservare il comportamento e scrivere in consegna ciò che osserviamo
e. se l’ipotesi non sortisce gli effetti desiderati si ritorna alla lista delle ipotesi, la si amplia con il pensiero creativo e da capo si sceglie l’ipotesi più verosimile
f. si osserva il comportamento, si scrive in consegna
e solo quando il comportamento speciale risulta diminuito nella sua complessità si allenta l’attenzione sulle consegne e sulla chiusura del ciclo assistenziale
Una delle cose che oggi mi indigna maggiormente nelle residenze per anziani è come i comportamenti speciali siano inascoltati, “tappati”, “giudicati” e come molti componenti dello staff abbiano sviluppato così tanta impotenza verso di essi al punto tale da non scrivere nemmeno più nulla in consegna.