“Essere accolti” in casa: la grande sfida per il professionista della cura a domicilio
“Suono alla porta di Angela con in mano il mio bagaglio pieno di “attrezzi del mestiere”. Non conosco questa famiglia, è la prima volta che ci vediamo e mi sento un po’ tesa per questo nuovo incontro. Per esperienza so quanto i primi momenti siano fondamentali per innescare quella curiosità reciproca che porta poi alla conoscenza e alla fiducia. So anche quanto la malattia sia capace di creare un guscio intorno alle famiglie che, se da una parte permette loro di difendersi dai giudizi degli altri che possono ferire, dall’altra genera isolamento in una realtà dove c’è spazio solo per una routine di gesti collaudati e sicuri e una cerchia di persone a volte molto limitata. Sono anche consapevole che verrò accettata, il loro bisogno di aiuto giustifica la mia presenza, qui, ora, ma quello che realmente desidero è essere accolta perché è solo attraverso l’accoglienza che quel guscio impenetrabile verrà scalfito e piano piano abbattuto.”
Accogliere è aprire la porta a chi ti sta bussando, accogliere per fare entrare, per condividere un’esperienza, per creare scambio. E’ l’accoglienza, gesto attivo di apertura verso l’altro, che crea i presupposti per “l’alleanza terapeutica” necessaria all’efficacia del percorso che insieme stiamo per costruire. Un’alleanza costituita da obiettivi da pianificare insieme, passi da compiere nella direzione del miglior stato di benessere possibile e una chiara definizione di compiti reciproci.
L’accoglienza si appoggia sul massiccio pilastro della fiducia, elemento indispensabile all’avvio di una comunicazione e interazione ottimali. Ma quali sono gli elementi che ispirano fiducia nell’altro?
Secondo lo psicologo e psicoterapeuta ungherese Peter Fonagy ognuno di noi nella scelta di avere fiducia, è guidato da un preciso criterio: ci fidiamo quando ci sentiamo “riconosciuti”, quando sentiamo che l’altro è interessato a noi, quando ci sentiamo compresi nel nostro stato d’animo. Solo allora si genera il senso di sicurezza necessario per potersi affidare, per potersi mettere nelle mani dell’altro con serenità e, appunto, fiducia, punto cardine intorno al quale costruire una relazione di aiuto.
Dobbiamo avere chiaro che la persona e la famiglia di cui abbiamo cura, non ci devono fiducia a prescindere per il semplice fatto che indossiamo una divisa, ma abbiamo bisogno di passi concreti per arare il terreno della relazione, seminare fiducia e raccogliere alleanza. Secondo Carl Rogers, uno dei maggiori esponenti del modello di relazione di aiuto, è necessario che il professionista parta da una visione positiva della persona, ovvero che guardi all’altro non solo come un individuo fatto di problemi, patologie e limiti, ma come un essere umano che possiede risorse, potenzialità e capacità. Credere e avere fiducia nelle possibilità insite nella natura umana, nelle capacità di riorganizzare sé stessi in direzione della salute, è il primo passo che il professionista deve compiere: dare fiducia per avere fiducia.
Il ruolo primario in questo processo è sicuramente rappresentato dall’abilità di “ascolto attivo”, la capacità cioè di ascoltare vedendo la realtà con gli occhi dell’altro, di mettersi nei suoi panni in modo da dare una lettura delle esperienze che sta vivendo, con parametri che derivano dal suo vissuto e dalle credenze e significati maturati nel corso della vita (ascolto empatico). Questa attitudine permette all’ interlocutore di diventare più consapevole delle proprie emozioni e all’operatore di comprendere i sentimenti dell’altro, di rispettarne la diversità, di adattarsi ai suoi tempi e soprattutto di sostare con la persona “sospendendo il giudizio”.
“La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione” (Carl Rogers)
La sospensione del giudizio avviene quando ci poniamo difronte all’altro con il desiderio e la curiosità di conoscerlo in modo genuino e disinteressato, senza interpretare e classificare le sue idee in “giusto” o “sbagliato”, ma riconoscendone il valore.
Ecco, quindi, i primi tre elementi fondamentali che il professionista ha bisogno di coltivare dentro di sé per creare un’efficace relazione di cura: visione positiva, ascolto attivo e sospensione del giudizio. Solo maturando questi aspetti, sarà poi possibile esprimerli con autenticità attraverso gesti concreti capaci di abbattere il muro della diffidenza che a volte si frappone tra operatore e persona/famiglia di cui si ha cura.
Li possiamo considerare ingredienti base per ogni tipo di relazione, da impastare poi con un’abbondante dose di gentilezza nei gesti e nelle parole. Gentilezza intesa non come una forma di cortesia o una formalità, ma come un atteggiamento di profonda umiltà e disponibilità verso l’altro che nasce da un sentire interiore fondato sul rispetto.
Il mio invito a te, che sei un professionista della cura e della relazione, è quindi quello di allenare prima di tutto in te la capacità di accogliere l’altro, indipendentemente dai suoi pensieri, dai suoi atteggiamenti che a volte non capisci e non condividi. Crea dentro di te lo spazio necessario mettendo da parte l’istinto e la fretta, per dare spazio all’altro anche quando vorresti imporre soluzioni che a tuo avviso sono a portata di mano ma che hanno forse bisogno di tempo per essere considerate possibili dalla persona di cui hai cura. Ricorda che ogni tuo gesto, ogni parola e ogni silenzio contribuiscono a rafforzare o indebolire la relazione quindi porta consapevolezza nelle tue azioni senza lasciarti dominare da pensieri che ti trascinano nel “si è sempre fatto così”.
L’accoglienza talvolta può essere faticosa, ma è il valore che trasforma la relazione, che dona bellezza all’incontro, profondità e arricchimento nello scambio reciproco e che ti permette di crescere umanamente e professionalmente. La persona e la famiglia mettono nelle nostre mani quello che hanno di più prezioso: la loro salute, le loro speranze. Sta a noi diventare degni custodi di valori così preziosi.
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