Speranza: saper aspettare oltre il buio
Come è possibile convivere con una malattia per la quale non esiste cura e mantenere accesa la Speranza?
Per definizione la Speranza è “il desiderio e l’aspettativa che il futuro sia migliore del presente” (Benedetti), ma appare quasi paradossale quando il futuro che si prospetta, con ogni probabilità, non riserverà tempi migliori.
Eppure la Speranza promette e sorprende, anche quando l’ala severa del dolore bussa alla porta di casa.
Il padre dell’oncologia italiana, il dott. Umberto Veronesi dichiarò in un’intervista all’Espresso: “Ma la prognosi-la previsione di come la malattia si evolverà e quindi quanto e come la persona vivrà- è incerta, e come tale va comunicata. Poiché la medicina non è una scienza esatta, c’è sempre un margine di incertezza nello sviluppo di una malattia e in quel margine si colloca la Speranza”.
“Tutti i medici devono essere onesti, ma nessun medico ha il diritto di togliere a un malato la Speranza. Perché quando si dice a qualcuno “devi morire” è come farlo morire in quel momento”.
Per quanto sia differente l’esperienza di chi con-vive con la demenza e della sua famiglia (l’aspettativa di vita per queste persone è molto lunga), rispetto a chi ha una malattia grave e terminale come una neoplasia maligna, ci sono aspetti che ritornano e che non sono da attribuire alla malattia di per sé, ma più probabilmente alle parole usate dallo specialista nel momento della diagnosi.
“Non c’è niente da fare”
che suona quasi allo stesso modo del “devi morire”!
Provare un sentimento di Speranza e di Fiducia nella Possibilità e Bellezza della Vita non emerge da sola nel momento in cui una persona si ritrova a vivere un’esperienza di dolore e sofferenza in seguito a una diagnosi.
Queste risorse interiori, questo sguardo di apertura sulla Realtà hanno bisogno di essere s-velati e fatti emergere da chi non è, in quel preciso istante, direttamente coinvolto da un’emozione così intensa come la paura e lo smarrimento che offuscano la mente e il cuore nella fase iniziale della malattia.
Qui entra in gioco la responsabilità nell’uso delle Parole da parte di tutti i professionisti della cura, a partire dai medici specialisti per arrivare agli operatori all’interno delle strutture per anziani.
Come afferma Vittorino Andreoli in “Il corpo segreto”
“Occorre fare attenzione all’uso delle parole, ponderarle, rispettarle come la cosa più preziosa che possediamo. Rappresentano il significato stesso dell’essere umano. Noi siamo parola. Ci manifestiamo con la parola, generiamo parole; la parola è l’unico dono che possiamo elargire…E nel momento in cui la si pronuncia ed esce dalla bocca, la parola sta ad indicare che è avvenuto qualche cosa da cui non è più possibile tornare indietro…la parola fa…Ci sono parole che uccidono e parole che salvano…Quando la parola si fa preghiera, persino il Padre Eterno viene a conversare…”
Di grande interesse sono gli studi e le ricerche effettuate da Fabrizio Benedetti, Professore di fisiologia umana e Neurofisiologia all’Università di Torino, riportate nel suo libro “La speranza è un farmaco”.
Lui stesso afferma
“La speranza può essere indotta dalle persone più vicine così come da chi cura, il medico o il terapeuta. Sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole empatiche, di conforto, fiducia, motivazione”.
Grazie alle sue ricerche arriva alla conclusione che le parole sono potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. Le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina. Con il linguaggio primitivo degli ominidi è iniziata quella interazione sociale di empatia, compassione, fiducia e speranza. Tutto ciò avviene nel cervello umano, dove un insieme di molecole costituisce una vera e propria farmacia interna attivata dalla relazione tra individui”. Se io ho fiducia in te e spero di stare meglio, il mio cervello inizia a produrre degli antidolorifici naturali e il dolore diminuisce.
E ancora aggiunge
“Le parole possono allo stesso modo essere tossiche e produrre danni, così come i farmaci. Possono indurre ansia, depressione, sconforto e possono anche ingannare, quindi il loro uso dev’essere ponderato adeguatamente, per evitare che una malattia già di per sé invalidante venga aggravata da parole avventate e spropositate”.
Questo è ciò che i Felicitatori del Sente-mente® Modello vogliono far accadere durante i Laboratori per le famiglie di persone che convivono con una demenza. In questo percorso le persone vengono allenate alla resilienza e all’autoefficacia, unica via per far fronte al senso di impotenza nel quale si sentono immerse perché indotte dal contesto culturale a credere che la demenza abbia l’ultima parola!
S-velare la Bellezza e la Possibilità delle persone nonostante la diagnosi di un loro caro e aiutarle ad accedere alle loro risorse interiori proprio nei momenti di maggior sconforto e difficoltà, le aiuta ad attraversare il dolore, la fatica, la paura e la perdita.
Riporto qui di seguito le parole scritte al termine di un Laboratorio appena concluso da una donna il cui giovane marito convive con una forma di demenza da circa 2 anni.
“Ritrovarsi a 50 anni con una diagnosi di demenza in famiglia è totalmente spiazzante, non sai cos’è, com’è, perché…
Ti viene solo detto che è una “disgrazia”, che non puoi fare niente per fermare la progressione inesorabile di un male che devasta la vita del tuo caro e di riflesso la tua. Ti senti impotente e fortemente arrabbiato.
Ad un iniziale rifiuto subentra subito la ricerca affannosa e urgente di aiuto presso altri medici, altre strutture sanitarie specialistiche. Possibile, ti chiedi, che non esista qualcuno che possa fare qualcosa? Ma capisci presto che con questa malattia non c’è urgenza “Signora, solo il tempo ci dirà precisamente cos’è… “. Ma come?!?! Io non ho tempo da perdere, devo sapere subito cos’è, per poter aiutare mio marito al più presto! Niente da fare, passano i mesi e quegli iniziali segnali che “c’è qualcosa che non va” diventano sempre più chiari ed eloquenti. E ti scontri sempre e di nuovo con una frustrazione profonda, sorda, rabbiosa che, se anche riesci ad esprimere con qualcuno, non dà spazio né alla speranza né ad un benché minimo sollievo.
Poi pian piano capisci cos’è quella “bestia” che si sta portando via le capacità cognitive di tuo marito e impari a guardare a lui non più con la pretesa di riavere la persona di prima, ma con la consapevolezza di avere accanto l’essenza della persona che era prima.
Ti accorgi con grandi fatiche e con immenso dolore che veramente c’è una malattia che si sta portando via una parte fondamentale della persona con la quale hai vissuto una vita meravigliosa, della persona che ami e che più non sarà. Capisci anche che la rabbia non serve e le risposte ai tanti perché non ci sono, mentre diventa urgente e fondamentale rimparare a vivere.
Vivere con la persona, vivere con la malattia, vivere con la tua nuova realtà. Solo l’accettazione, ma più ancora, la consapevolezza del proprio limite che ti porta ad accogliere con umiltà ciò che ti è accaduto, ti salva.
Avrei voluto conoscere prima il progetto, metodo di cura Sente-Mente. Forse sarebbe stato molto più facile arrivare a capire che c’è vita oltre la diagnosi o forse sono comunque necessari dei tempi di maturazione delle cose.
Comunque, carissima Simona, la cosa importante che vorrei dirti è quella di procedere spedita su questa strada perché è necessario dare al più presto speranza a chi si ritrova dall’oggi al domani ad avere a che fare con un familiare ammalato, soprattutto se giovane. È necessario portare luce là dove, una simile diagnosi, la spegne lasciando le persone nel buio più totale”.
Ecco allora che la Speranza può essere intesa non solo come l’aspettativa di un futuro migliore del presente, ma come la virtù di chi “non molla”, di chi trova un senso alla malattia e un motivo per continuare a vivere pienamente e, perché no, sorridere! Sperare aiuta a tenere accesi i desideri e agire per vivere una vita che valga la pena, nonostante tutto, sia per se stessi sia per chi ci sta accanto.
Quando è difficile (o impossibile) liberarsi dalla malattia, la Speranza ci abilita a liberare la malattia, dando ad essa volto, voce e parola: la malattia si fa allora condizione possibile dell’esistenza umana, talvolta significativa e – paradossalmente – arricchente.
La domanda di senso che la fragilità umana impone con insistenza alle nostre intelligenze, può sì essere ignorata, ma mai cancellata.
La malattia, se lo vogliamo, arriva come Maestra nella nostra vita ed è proprio lì, nella scuola del dolore, che possiamo imparare, perché da essa acquisiamo occhi simili a quelli dei gufi, capaci di vedere nelle notti dell’esistenza, la stella della verità: #lavitanonfinisceconladiagnosi.
#simona_sentementefelicitatrice