Anche le parole possono togliere dignità: il Sente-mente ® vocabolario socio sanitario
Il linguaggio crea possibilità e cura oppure impotenza e violenza. Nello straordinario documento promosso da Dementia Australia troviamo proprio l’accorato appello a usare, in ambito relazionale e socio sanitario un linguaggio capace di essere appropriato e inclusivo.
Ecco allora il senso profondo di Sente-mente ®. Non de-mente, non fuori dalla propria mente, ma Sente-mente, ovvero persona in grado (ormai la scienza non ha più dubbi) di “sentire” e sperimentare in ogni istante, come noi, emozioni.
“Il linguaggio di una vita è difficile da cambiare e certamente non credo che l’intento sia dannoso, ma trovo sempre difficile rimanere ad ascoltare. Le parole sono così potenti. Possono costruire la nostra autostima e il nostro buon umore, ma possono anche completamente annientarlo. Possono veramente far male! E noi tristemente spesso ricordiamo solo le cose brutte. Cambiare il nostro linguaggio, in modo che le nostre parole non feriscano gli altri accidentalmente (o intenzionalmente), ne vale assolutamente la pena” (Kate Swaffer – Avvocato australiano che vive con la demenza)
Malattia devastante, terribile, un ladro di memorie. Con l’Alzheimer non sei nessuno. Un ladro che ti porta via ciò che di più caro hai: la mente. Se perdi i ricordi perdi tutto. Di te diranno: “Non capisce più niente”
Quando sentiamo parlare di demenza una serie di vocaboli senza speranza ci giungono addosso. La malattia, descritta nella sua nuda espressione biologica ed organicistica, si dimentica della persona, del suo vissuto, della sua storia, dei suoi valori.
Nella non autosufficienza non va meglio: non sente niente, è un morto vivente, è un vegetale, è un demente, una mummietta.
E ancora: si spegneranno tutte le luci e resterà solo il buio, è un peso ormai, di lui non resta più nulla, è solo l’ombra di quello che era, è in stato vegetativo, è aggressivo, è affetto da disordini dell’umore e da disturbi del comportamento, è violento, sono rimasti solo i vestiti di lui.
Sono solo alcune delle parole che usiamo per descrivere le persone di cui ci prendiamo cura. Pensiamo così e scriviamo così.
Il modo con il quale parliamo di una situazione già trasmette delle emozioni. Quello su cui ci concentriamo cresce e quello a cui pensiamo si amplia. Quando noi dedichiamo attenzione a qualcosa e ne parliamo spesso faremo crescere d’importanza quella cosa.
Parole senza speranza, parole che connotano solo il problema, i cui contorni sono chiari: il problema è sempre dell’altro (il demente, il tossico, il disabile, l’autistico, l’iperattivo, l’alcolista, il carcerato, il dsa…)
Ciò che rende l’altro fragile diventa il problema. Vivere una malattia, oppure una situazione di fragilità, può condurre la nostra attenzione a focalizzarsi totalmente su ciò che l’evento negativo ci sta portando via.
E se imparassimo a chiederci: “Io credo in lui? Credo nella sua possibilità di vivere aldilà di qualunque sintomo della sua malattia, con speranza e coraggio? Quando lo guardo, se lo guardo, vedo ciò che lui ancora può diventare grazie all’incontro con me?”
Ecco allora che potremo imparare a scegliere dove porre la nostra attenzione e con quali colori far scintillare le nostre parole affinché diventino strumenti di cura.
E’ risaputo come la pratica della cura assuma conformazioni differenti a seconda dell’intenzione che la guida.
“La cura destinata ai malati, agli anziani non autonomi e alle persone con handicap temporaneo o permanente viene concettualizzata nel suo senso riparativo, cioè come accudimento che colma lacune”(Luigina Mortari)
Luigina Mortari, nel libro “La pratica dell’aver cura”, distingue due concezioni della cura: quella riparativa (che colma lacune), da quella promotiva, che coltiva l’essere.
Nella lingua inglese i termini che distinguono queste due funzioni son ben distinti: cure e care. Ad entrambi questi vocaboli sono associate azioni e atteggiamenti ben diversi. Non si può aver cura di una persona se si attivano esclusivamente azioni che hanno lo scopo di ripristinare lo stato di salute, che hanno l’obiettivo di porre rimedio e riparare. Non ci può essere relazione terapeutica senza la forza della fiducia nell’altro.
“I care” – così affermava Don Milani – “Mi importa, ho a cuore”. E’ questa la finalità dell’aver cura.
E’ così che si instaura una relazione terapeutica fatta di azioni che si dedicano, che monitorano, che proteggono, che azzardano e che hanno a cuore. Non ci può essere la realizzazione di un grande sogno senza passione, tempo e impegno.
Se il tuo perché, se il tuo sogno, è così forte inizi a: pianificare, a sperimentare su te stesso il cambiamento ed inizi a lavorare per ottenere ciò che davvero vuoi raggiungere. Il perché diventa il tuo Re. Un imperativo, la molla che fa scattare l’indignazione e il cambiamento. E alle radici del perché, un forte senso di responsabilità individuale che ci invita a scegliere, a prendere posizione nel mondo e per il mondo.
Il mondo, e non solo quello socio-sanitario, ha bisogno di persone capaci di discriminare, valutare, attribuire priorità e fare delle scelte.
Dentro al cuore ed alla mente di ogni professionista della Cura e della Relazione batte un unico ritmo: #iocentrosempre, #iocredointe.
Non esistono limiti, non esistono etichette, non esistono ostacoli insuperabili. Esistono la capacità di indignarsi, la capacità di osare e compiere azioni coraggiose.
Coltiviamo e alleniamo la nostra resilienza, è finito il tempo di lamentarsi. E’ tempo di assumersi la propria responsabilità e darsi da fare.
Se vuoi approfondire l’argomento leggendo il mio ultimo libro “Il linguaggio dei due mondi” nel quale potrai scoprire maggiori informazioni su come cambiare il tuo linguaggio, quale viaggio far fare alla tua struttura puoi comperarlo da qui: http://www.geneticamentediverso.it/negozio/idee-regalo/linguaggio-dei-due-mondi/
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